La storia del Freisa
26/04/2021
primi riferimenti al Freisa si ritrovano in alcune tariffe doganali di Pancalieri (1517), comune pianeggiante a sud della collina di Chieri. In quei documenti le “carate delle frese” erano considerate come vini pregiati e pagati il doppio degli altri. Da studi svolti da Aldo di Ricaldone su alcuni archivi signorili, tra cui quelli dei Cotti Ceres, emerge che nel 1692 furono impiantati nei dintorni di Neive dei vigneti di Freisa e meno di un secolo dopo nella proprietà dei Della Valle a Lu, nel Casalese. Una prima descrizione del vitigno e del vino Freisa si trova nell’Opera “Sulla coltivazione delle viti” del Conte Nuvolone pubblicata nel 1798 in occasione dell’adunanza della Società Agraria di Torino. Nel descrivere il vino, si evidenzia la presenza di molto “tartaro” e per questa ragione esso necessita di numerosi travasi, ma è adatto all’invecchiamento e impiegato per il taglio con vini più deboli. Enza Cavallero, in una monografia sul Freisa, ipotizza che per la sua ricchezza in estratto, possa essere stato utilizzato nella preparazione della “tintura sacra”, uno dei vini medicanti adoperati contro la peste, poiché il Casalis fa cenno per questi usi “al vino di Chieri” nel “Dizionario geografico storico statistico degli Stati del Re di Sardegna”. Nella prima metà dell’Ottocento, l’uva Freisa viene descritta dai più importanti ampelografi che si sono occupati dei vitigni dell’Italia nord-occidentale, basti ricordare Acerbi, Milano, Gatta e Gallesio. Secondo Mainardi, il Conte Gallesio, giunto in Piemonte, rimase colpito dal numero delle varietà e dall’elevata qualità delle uve che si potevano incontrare, al punto che “ogni paese ha le sue”. Nella sua “Pomona”, rimasta incompiuta, doveva esserci anche l’uva Freisa ed era già stata predisposta un’illustrazione del grappolo, realizzata dalla Baronessa Lauretta Bonard d’Affry. Il nostro vitigno è ricordato dal marchese Leopoldo Incisa della Rocchetta (1861) per la buona adattabilità colturale e la produttività, le cui uve, spesso unite ad altre, davano vini facilmente commerciabili. Alla fine dell’800, secondo De Maria e Leardi (1875), la coltura del Freisa era diffusa in molti comuni della provincia di Asti e a Vignale, nel Casalese, occupava da un terzo alla metà della superficie vitata. Era anche diffusa nel Nord-Est del Piemonte, infatti si trova indicata nell’Ampelografia Italiana del 1879, stilata dal Comitato centrale ampelografico presieduto dal Rovasenda, come vitigno impiantato a Gattinara, nel vercellese, in terreni difficili perché ritenuto più rustico ed adattabile del Nebbiolo . La comparsa delle malattie crittogamiche, oidio e peronospora, determinarono un’ulteriore espansione di questo vitigno particolarmente rustico e resistente, che sul finire dell’Ottocento si estese dalla storica area di coltivazione, ovvero le colline dell’Alto Monferrato e la Collina Torinese, verso Asti e il Casalese, nei territori dell’Alessandrino, dell’Acquese, del Vogherese, di Langhe e Monferrato e nell’ampia fascia vitata pedemontana che si estende dal Saluzzese al Lago Maggiore. La Freisa però viene anche indicata da alcuni autori come il Gatta, nel suo saggio “Intorno alle viti e ai vini di Ivrea e della Valle d’Aosta” del 1833, come un’uva cattiva da mangiare e il cui vino soprattutto giovane è sgradevole, se non addirittura nocivo. Altri studiosi invece ritenevano il Freisa un vino di qualità, austero ed assai longevo, addirittura “di lusso” (Strucchi, 1895). Anche alcuni esperti d’Oltralpe, non influenzati dalle diatribe locali sul Freisa, come Mas e Pulliat, degustato un vino prodotto da un nobile Chierese, lo giudicarono non inferiore ai migliori rossi piemontesi.
Questa apparente discordanza di valutazione trova una spiegazione nelle ponderate considerazioni riportate nell’Ampelografia Italiana. Il Freisa infatti proprio per la sua rusticità, la resistenza alle malattie e la generosa produttività è stato confinato in ambienti poco favorevoli alla vite, o costretto a carichi produttivi eccessivi e non compatibili con la completa maturazione dell’uva che è piuttosto tardiva. In queste condizioni non si possono che ottenere vini modesti se non mediocri. I più diffusi sinonimi della Freisa sono Monferrina, Monfrà, Spanna Monferrina o Spannina, questi ultimi particolarmente indicativi per le similitudini del nostro vitigno con lo Spanna o Nebbiolo. Negli scritti ottocenteschi sono citate anche alcune Freise omonime di cui la più importante è la Freisa grossa o di Nizza, che in realtà corrisponde alla Neretta Cuneese. Questa confusione è ancora presente in alcune aree viticole come il Pinerolese, il Canavese e alcune zone dell’Alessandrino e dell’Astigiano dove la Neretta cuneese è ancora chiamata Freisone.
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